VI DICHIARO MARITO E MORTE di Simone Consorti

Di Roberto Maggi

I racconti di Simone Consorti mirano dritto al cuore di una società malata. Si muovono velocemente tra angoli in penombra, tracciando una traiettoria che allaccia esistenze condotte al margine. Sono esposizioni tratteggiate, moderni videoclip che tentano di rappresentare una realtà sfuggente e vuota, rappresentazioni rapide e sfumate di quel teatro grottesco che è la vita. La vita di un mondo involuto, che si accartoccia su se stesso, che grida in modo sommesso le storture che lo minano. I dieci racconti di “Vi dichiaro marito e morte” (Edizioni Ensemble, 2020), sin dal titolo, dichiarano un contraddittorio esplicito, esplorando plumbei ambiti di disagio, di appannamento del bene, per approdare a una sorta di luogo indistinto privo di scopo e di slancio salvifico. O, se salvazione vi è, la si può individuare in lampi leggiadri di descrizione ironica, che rimandano una visione meno amara.

L’impronta moderna che si rileva nella lettura di questa prosa immediata, intrigante, che spesso ricorre all’uso di voci lessicali attuali e ormai abituali nelle nostre esistenze accelerate e caotiche, ricorda gli esperimenti di quella scrittura visuale che caratterizza certa letteratura americana legata al neo-minimalismo, come Ballo di famiglia di David Leavitt e Meno di zero di Bret E. Ellis.

Ma senza andare troppo lontano, Consorti rimane fedele e ancorato alla sua realtà quotidiana, alle scenografie familiari in cui egli si muove e osserva, non divagando troppo dal suo nucleo di interesse, filmando le vicende che gli scorrono attorno e fissandole sulla pagina, riuscendo a tradurle felicemente in quadretti godibili, ognuno rappresentativo di aberrazioni più o meno spinte, celebrando senza sconti la decadenza e i paradossi di personaggi segmentati, prigionieri di un ambiente deviato, ostile, borderline.

E così, come guidati da una corriera stravagante, veniamo introiettati in sequenze scabre, dove a predominare vi è un senso di sconforto e solitudine, spesso accompagnato da una buona dose di ordinaria follia (voluto è il riferimento Bukowskiano). Dall’inquietante “Portare il cuore del santo”, ove con un trapianto cardiaco si vorrebbe condizionare simbolicamente un’inversa personalità per fini subdoli (inevitabile pensare al fantascientifico Cuore di cane di Bulgakov), fino a “I papà di Anna”, si passano in rassegna situazioni dissonanti e surreali, dove, diremmo, si è perso il lume. Come ad esempio ne “Il prescelto”, apocalittica messa in scena del suicidio di massa di una setta (in cui le ostie sono liturgicamente rappresentate da pillole di veleno) o in “Nozze di plastica”, nel quale, con un abile contrappunto dei ruoli, uno sfigurato reduce di guerra, rifiutato per la sua deformità anche dall’avvenente sposa, si spinge ad attuare una sadico progetto di pariglia, deturpando a sua volta la moglie per “salvare” il destino della coppia (e qui, con le dovute differenze di intenti e di stile, la memoria ci riconduce alla drammatica, commovente pellicola The Elephant Man di David Lynch).

I rapporti umani, siano essi di coppia/parentali/sociali mostrano allora tutti i loro dissidi striduli, le loro fragilità, rimanendo incompiuti, scollati, indirizzati desolatamente lungo paralleli binari morti. Ma non per questo, sembra suggerirci l’autore, anche attraverso spunti ironici e fantasiosi, bisogna perdere la bussola, nonostante la disumanizzazione imperante. Come ci è svelato nell’episodio “Tutto tranne fascista”, sempre c’è posto per una parziale riconciliazione, sempre si possono ricomporre i frammenti di un tessuto sociale che cade a pezzi. E come in Accattone lo sguardo compassionevole di Pasolini si posa sui diseredati urbani attraverso l’inquadratura di due chiari occhi posti fuori campo, in simil modo l’abbraccio finale di una bimba verso un padre mancante e desiderato, dolcemente ci consegna tutta la potenza di un gesto consolatorio e tenero.

Roberto Maggi