IL LUPO DELLA STEPPA di Hermann Hesse

di Roberto Maggi

Ci ho pensato e ripensato e alla fine mi sono deciso: mi sfido nel commentare un libro di Hermann Hesse. Impresa tutt’altro che facile, non solo perché ci si confronta con uno dei più affermati scrittori della letteratura del novecento (Premio Nobel nel 1946), ma anche perché egli rappresenta una sorta di idolo generazionale, capace di influenzare tanti giovani che a lui si sono approcciati e tutt’ora si approcciano, soprattutto in fase adolescenziale. Vuoi per la sua cultura profondamente influenzata dal pensiero dell’estremo oriente, vuoi per i temi affrontati nei suoi romanzi, dove l’uomo si muove costantemente in bilico tra due mondi spesso contrapposti tentando disperatamente di realizzare un equilibrio, le sue opere hanno suggestionato schiere di lettori. Inutile soffermarsi nella descrizione di titoli che sono ormai dei classici, se non addirittura dei “cult”: Demian, Narciso e Boccadoro, Siddhartha, in parte il laborioso e sofferto Il gioco delle perle di vetro.

Giovane curioso che si affacciava sugli sterminati campi del mondo letterario, anche io ne ho subìto l’ammaliante richiamo, pur muovendo i primi passi su altri terreni, come quello magnificamente coltivato della letteratura russa dell’ottocento.

Erano i tempi in cui la diffusione della “nuova mentalità” scaturente dal corpo mastodontico delle filosofie orientali, in particolare del Buddismo e dello Zen si allargava a macchia d’olio in tutto l’Occidente, investendo vari settori della nostra cultura, erano i tempi dei mitici anni settanta. Basti ricordare, a solo titolo di esempio tra migliaia, la citazione che Carlos Santana appone nelle note di copertina del suo fantastico secondo album Abraxas, traendole dalle pagine di Demian: “… lo abbiamo chiamato madre, lo abbiamo chiamato puttana e sgualdrina, lo abbiamo chiamato nostro amato, lo abbiamo chiamato Abraxas…”. Io, di quell’opera intrigante, ancora ricordo in modo vivido la memorabile sequenza: “L’uccello lotta per uscire dall’uovo, l’uovo è il mondo. Per nascere bisogna distruggere un mondo”.

E quindi misi in fila tutti i suoi lavori, leggendo avidamente in sequenza quei conturbanti scenari dell’anima. Per chi, come me, amava anche dilettarsi di poesia, l’incontro con uno stile oltremodo permeato di lirismo e di inebriante panteismo, vieppiù esaltato dalla ineguagliabile traduzione del grande germanista Ervino Pocar, non poteva non indurre fascino e attrazione, sortilegio ed estasi.

Discorso a parte merita però Il lupo della steppa, che ha avuto per me un percorso tortuoso, scabro, duplice. La sua prima lettura mi aveva sì colpito, ma non conquistato completamente. La storia di quest’uomo di mezza età, scontroso e superbo, completamente inadatto a vivere e a riconoscersi nella società del suo tempo (siamo immediatamente prima lo scoppio della seconda guerra mondiale), anzi ostile e sdegnoso di essa, mi aveva comunicato un diffuso senso di tristezza, di sconfitta. Forse l’eccessiva immedesimazione con il suo personaggio, amante di elevati valori spirituali e di musica sublime, nauseato dagli schemi perbenisti e falsi della classe borghese, mi aveva fatto sentire a mia volta un lupo condannato a peregrinare in un mondo solitario e sconsolato, lontano dalle frivolezze di una società mondana e stupida.

Si dice che il tempo è galantuomo, e davvero ciò che in un primo tempo giaceva latente, si è rivelato in modo esplosivo ad una seconda lettura. Se, come è evidente, il libro mette in luce tutti i mali di una società povera di spirito nella quale l’individuo colto ed elevato inesorabilmente annega, dall’altra esso offre una via d’uscita, un mezzo per affrancarsi alle storture della vita.

E lo fa in modo potente, attraverso un inquadramento storico-sociologico mirato e, soprattutto, mediante un articolato processo di autoanalisi e di indagine psicologica: non è certo un mistero che l’autore fosse un seguace delle teorie Junghiane. D’altronde lo stesso Hesse ha tenuto a precisare, in seguito all’uscita dell’opera, che suo principale intento era soprattutto quello di indicare una cura, una via di guarigione. Il lupo della steppa è peraltro lavoro in gran parte autobiografico, dove è lampante l’immedesimazione dualistica tra personaggio e autore. Non solo nell’uso delle stesse iniziali (Harry Haller-Hermann Hesse), ma anche nel fin troppo palese riferimento riscontrabile nel personaggio di Erminia (il femminile di Hermann), figura centrale nel processo di riscatto del lupo, che attraverso di lei e di altre sensuali guide, potrà assaporare un mondo diverso, fatto di complicità, di tuffi d’emozione, di immersione nei piaceri della vita, non più visti come specchi sudici di una società immorale, ma come slanci d’eros verso un’accettazione più consapevole della realtà. È così che il lupo apprende il gusto di ballare.

La seconda parte del libro diventa allora un traghettamento trascinante verso la riscoperta del sé: induce l’uomo sprezzante a riconciliarsi con il mondo, o meglio ancora, con la parte altezzosa e oscura del proprio intimo. Anche qui ritorna il tema centrale di ogni opera di Hesse, dove sempre c’è un confronto tra due parti avverse e antitetiche, dove sempre si vorrebbe realizzare una sintesi ideale sulla spinta di un dualismo paralizzante.

E così mi resi conto di avere a che fare con un’opera di portata maiuscola, dove si celava un significato ben più profondo e sconvolgente. Il lupo della steppa, burlescamente come da tradizione Hessiana, mostrava l’altra faccia. L’altro lato della luna che inizialmente non avevo colto appieno. Ma la sua influenza, da quel momento in poi, è stata innegabile: mi ritrovavo spesso a meditare sul suo messaggio, e di conseguenza mi comportavo. Vedevo la vita con altri occhi, meno severi, più aperti e concilianti, nell’ottica improvvisamente disvelata che “questo mondo è questo mondo”, da assaporare pienamente per il tempo che ci è concesso. Per questo è stato un libro importante, per questo ne parlo solo ora, a distanza di molti anni, ormai libero e distaccato da sudditanze idolatranti.

Va anche detto, a rischio di denigrare il mito, che l’artista svizzero-tedesco è stato spesso considerato dagli accademici orientalisti un conoscitore poco più che mediocre di quella cultura filosofica, ma che importa? Pochi come lui sono riusciti a instillare nell’animo di tanti giovani una passione per l’Oriente così entusiasta: nessuno può toglierli il merito di averli avvicinati prepotentemente a nuove visioni.

Alla fin fine, al di là dei valori oggettivi, ogni capolavoro è tale nella misura di ciò che ci trasmette. E, come nel teatrino magico in cui Harry alla fine si ritroverà, idea geniale ed estremamente surreale di fine racconto, ecco che la vita ci si presenta come una serie di porte arcane che non si può fare a meno di aprire (ricordate The chamber of 32 doors nel concept-album The Lamb lies down on Broadway dei Genesis?), e che possono condurci alla salvazione o alla rovina. Là si consuma fino in fondo la tragedia di Harry, dalla quale però si trae un grande insegnamento o, se vogliamo, un salutare antidoto: senza ironia, senza quella sonora immortale risata che ci dona la capacità del superamento, siamo destinati a morire. È la grande, sguaiata risata di Mozart, è l’aperto, smagliante sorriso di Pablo, che fa stridere il suo sassofono in furiose ballate jazz, fregandosene delle grandi sinfonie classiche, facendo apprezzare nuove forme melodiche fino a poco tempo prima ritenute volgari e inaccettabili. Non è necessario ascoltare la più elevata musica in forma pura: anche la riproduzione “graffiata” di un giradischi gracchiante non ne altera il senso e la natura. E allora, impariamo a ridere, ad abbandonarci, impariamo ad oltrepassare la serietà che troppo spesso ci autoimponiamo! Quando il processo è consapevole, è accorgimento benedetto. Perché, allora sì, alla fine di un corridoio stretto e buio, di una galleria oscura e claustrofobica, davvero ci potrà essere un Pablo e un Mozart che ci aspetta.

Roberto Maggi