IN CAMPO LUNGO di Sabino Caronia

(Articolo di Roberto Maggi)

Ricordo, rivedo, rammento, rivivo. Disseminate copiosamente lungo i dodici capitoli del libro di Sabino Caronia “In campo lungo” (Schena Editore, 2019) queste reiterate espressioni, come le battute d’attacco di una partitura musicale, testimoniano un viaggio vissuto nel corso di una vita. Un viaggio a ritroso, fatto di continui e affastellati flasback, dove le immagini prendono corpo in un divenire liquido, quand’anche fatte di luoghi minuziosamente descritti, quali cartoline dell’anima che ripercorrono il passaggio del tempo lungo un filo lentamente dipanato. Un viaggio, dunque, che evoca luoghi fisico-astrali che sono stati teatro di esperienze e momenti fondanti, custoditi in uno scrigno che ci viene timidamente aperto.

Le rimembranze, con le sfumature emotive ad esse legate e le relative riflessioni dell’autore, prendono spunto da innumerevoli richiami letterari che fanno parte, a vario titolo, del suo immenso bagaglio culturale, e che ci vengono svelate come in un gioco di scatole cinesi, una dentro l’altra, interconnesse tra loro da infinite risonanze. E in questo vortice denso di rimandi intellettuali, troppo sterminati per essere qui riallacciati e sintetizzati, si mescolano le voci degli autori fittamente citati, coloro che per Caronia hanno avuto un peso specifico rilevante, un apporto conoscitivo/esperienziale capace di generare un confronto dualistico. Una relazione così stretta da determinare spesso una sovrapposizione, una sorta di immedesimazione con gli eroi del suo percorso di crescita. “Io e Kafka, io come Kafka”, ci viene più volte ricordato nel suo precedente volume-saggio sul grande scrittore praghese, “La consolazione della sera”. E ancora, nel romanzo di che trattasi: “Uno scrittore che sovrappone i suoi stati d’animo a quelli immaginati del suo personaggio”. Una sorta di frase manifesto della sua visione estetica.

Come per gli eteronimi utilizzati da Pessoa, le voci dispiegate da Caronia in qualità di suoi irrinunciabili baluardi letterari sono quelle cui agganciarsi per cantare in definitiva se stesso, per farsi parola tra le parole, mostrando molteplici visioni che confluiscono finalmente nella sua. D’altronde egli stesso lo esplicita, quando in una sorta di scambio di ruolo con il Vate D’Annunzio, dice: “Mi sembrava che attraverso di lui avessi proceduto a una lettura di me stesso”. Una vita narrata anche attraverso Le vite degli altri, verrebbe impropriamente da dire.

E cosa ricorda Caronia? Naturalmente, come d’uopo in un contesto autobiografico, i luoghi cari, i momenti cruciali, gli amori, gli affetti, tutto un mondo familiare riportato alla luce in un esperimento a incrocio che, diremmo in chiave modernamente musicale, sa di cross-over. Ed ecco esposti d’incanto i bellissimi quadri di Terracina, di Bellosguardo, della Campania, eccoci liricamente rapiti dalle pagine dedicate alla Sardegna, agli attimi felici della Maddalena, dove traspare inequivocabile l’amore per il mare, quello stesso mare “alleato del sole” di Rimbaud e fonte di gioia per Kafka. Il tutto rivissuto in un discontinuo andamento temporale, dall’infanzia alla maturità. Memorie snocciolate a tratti in modo maniacale, con una dovizia di particolari quasi eccessiva, per non tralasciare nulla di quanto conservato nel gran contenitore della propria storia. E che forse totalmente “propria” non andrebbe considerata, contaminata com’è dal continuo travaso di corrispondenze tra elementi biografici e allegoria letteraria. Una confluenza che alimenta le sensazioni e le considerazioni dell’autore sui grandi temi dell’esistenza, sulle “questioni essenziali” con cui ognuno di noi si confronta, con cui ognuno di noi si danna per dare un senso alla vita.

“Nell’assenza del tempo e dello spazio, tutto è memoria: l’evento presente, quello che è già accaduto e quello che ancora deve accadere”, misteriosamente ci sussurra nelle pagine conclusive. Così, con l’espediente di volerci portare con sé in diretta e in avanti nella sua trasvolata verso Gerusalemme per raggiungere la sua famiglia d’oggi, lì stabilitasi dopo la conversione all’ebraismo della figlia, egli di fatto ci inganna, facendoci entrare in un presente atemporale, sfuggente, illusorio, anzi semmai rivolto verso una fuga all’indietro, che affannosamente si inerpica sui sentieri del tempo perduto. Tracciati che metaforicamente ripercorre in compagnia dei suoi numi situati in campo lungo: Kafka, Fitzgerald, Chiusano, D’annunzio, Morrison e via dicendo. Con essi ricostruisce affreschi complessi, ci illustra ritratti commossi, ci parla con passione dei suoi miti.

La sensazione che si ha, rispettando il taglio cinematografico suggerito dal titolo, è quella di una pellicola che gira al contrario. E il sonoro di questo film dai toni nostalgici si estrinseca in un linguaggio di sorprendente eclettismo, variando tra diversi stilemi. Da quello tipico di un reportage giornalistico, con stile asciutto e cronistico, a quello più tecnico proprio della saggistica, fino a sfociare in modalità espressive più consone alla narrativa e, in preziosi slanci lirici, alla poesia.

In questo gioco di specchi e di rimbalzi spazio-temporali, dove volutamente ambiguo rimane il confine tra soggetto e oggetto del racconto, si ha quasi l’impressione di come l’autore rischi di perdere il contatto con se stesso confondendosi in una corale sinfonia di voci, dove la sua solo a tratti riesce a librarsi in assoli mirabili. Eppure è proprio in questi sprazzi che si rivela pienamente il suo pensiero, fatto di dubbi, di riflessioni amare, di esplorazioni. E così, quell’io transitorio, quella presenza evanescente tra storie parallele, assume un suo scolpito carattere, concludendo l’indagine del sé attraverso espressioni perentorie, secche, affilate, quasi delle sentenze esplicitate sulla comprensione di questo concentrato dell’insensatezza che è la vita. “La morte, come il sole, non si può guardare in faccia”; e ancora: “E poi la vita non conclude. Ogni esistenza è, in fin dei conti, un progetto interrotto”. Quasi delle massime che risuonano di rassegnata consapevolezza, ma anche come grida di ribellione contro le onde malefiche del Nulla: “Al di là dell’incostanza della realtà c’è la costanza del cielo. Più dei disegni degli uomini conta la volontà di Dio”. La prosa dell’autore, in queste vivide espressioni filosofiche, tocca il vertice. Così come nei paesaggi della natura dipinti con languida nostalgia, si gode della penna del poeta quale egli è.

Cosa aspettarsi allora al termine della vicenda? Cosa cercare ostinatamente in questo girovagare dello spirito che, più che risposte, sembra cercare requie? Forse la consolazione che ci offre la memoria e la scrittura? “A volte ci illudiamo che il passato possa rivivere. Ma non è così. Il passato non torna. … Eppure talvolta sembra di poter scorgere, in campo lungo, tutte le vicende, tristi e liete, della nostra vita” par concludere l’autore in tono agrodolce. Allora, ci vien dato di pensare, nel fondo prospettico dell’immaginazione sempre arde un lume: forse c’è spazio per una speranza sempre giovane, forse è lecito anelare a piccoli spicchi di vita felice. O almeno, non abbandonare la ricerca, per quanto illusiva possa sembrare.

 

Roberto Maggi