
…la bufera spazzava già i tetti gelati, una tempesta di neve che pareva un esercito di mostri scatenati nel buio….. L’inverno, una creatura informe ma viva e vegeta con tutta la sua rabbia selvaggia, è tornato, e si capisce che si sente a casa”.
Approdo a questo romanzo per curiosità, qualcuno me ne aveva parlato come di un gioiello di narrazione ma l’effettiva molla che mi ha spinto ad affrontarlo è stata l’immagine di copertina e la brossura tipica e ovunque riconoscibile delle edizioni Iperborea, che ritengo essere molto belle.
Ma devo dire che in nessun momento mi sono pentita di aver intrapreso questo viaggio, perché con un linguaggio semplice e diretto, Gunnarsson affascina ad ogni piè sospinto il lettore con descrizioni di luoghi innevati, personaggi solitari, atmosfere, minuziosità e un feroce particolarismo negli scenari e nelle emozioni: dalla fredda neve, confortante e familiare; alla magnificenza e alla maestosità dei monti islandesi; alla violenza selvaggia delle tempeste; alla solennità della natura; fino allo stupore, alla paura e all’adrenalina che un viaggio simile può suscitare nell’animo di un essere umano. Si rimane affascinati dalla descrizione vivida di questa landa lunare in cui la notte domina sul giorno e di cui alture, crepacci e tempeste di neve rappresentano la potenza e la minacciosità di una natura da sostenere.
Il racconto si presenta sotto molteplici aspetti come una sorta di favola di Natale. Benedikt, il protagonista, ha un modo tutto suo di festeggiare il Natale: è la prima domenica d’Avvento e come ogni anno lui, che oramai di anni ne ha 54, si mette in viaggio per portare in salvo le pecore smarrite tra i monti perché sfuggite ai raduni autunnali delle greggi e che per tale motivo correrebbero il rischio di morire assiderate, sperdute nel gelo della montagna islandese. Benedikt, che non sa dire di no quando qualcuno gli chiede aiuto, lui che conosce quelle montagne da 27 anni, è l’unico che può tirare in salvo le pecore recalcitranti, e non lo fa per scopi utilitaristici o per un suo tornaconto: le salva per salvarle, per rendere un servigio alla sua comunità rurale.
Nonostante sia già un uomo anziano, nessuno osa sfidare il buio e il gelo dell’inverno islandese per accompagnarlo in questa rischiosa missione, o meglio nessun uomo, perché Benedikt può contare sull’aiuto empatico dei suoi due amici più fedeli: il cane Leò e il montone Roccia “da anni i tre erano inseparabili quando c’era da fare quella gita, e ormai si conoscevano a fondo, con quella dimestichezza che forse è possibile solo tra specie animali molto diverse, e che nessuna ombra del proprio io o del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere o oscurare“.
Ogni anno comincia così il viaggio dell’inseparabile terzetto, la santa trinità come li chiamano in paese, attraverso lo sconfinato deserto candido, contro il furore della bufera che morde le membra e inghiotte i contorni del mondo, cancellando ogni certezza e ogni confine tra la terra e il cielo.
È qui che Benedikt si sente al suo posto, tra i monti dove col tempo ha sepolto i suoi sogni insieme alla paura della morte e della vita, nella solitudine che è in realtà la condizione stessa dell’esistenza, con il dovere cui non può sottrarsi, e che porta avanti speranzoso in un continuo confronto con gli elementi e con sé stesso, per ritrovare il senso della dimensione umana; con una unica preoccupazione, che non è quella di morire, ma quella di non sapere se il suo incarico sarà portato a termine da qualcun altro quando lui morirà.
Attraverso il pensiero di Benedikt l’autore ci trasmette quello che considera il senso ultimo della vita dell’uomo: trovare il proprio scopo nell’aiutare l’altro. Niente di più semplice, ma al tempo stesso impensabile al giorno d’oggi, trincerati come siamo nel nostro accecante egoismo.
E come ogni cammino, seppure già noto perché percorso e ripercorso, anche in questo caso arriveranno ostacoli e cambi di traiettoria. Un vero Avvento insomma, un percorso di scoperta e riscoperta, insieme di riflessione, di superamento delle difficoltà, di considerazioni e anche, infine, di cambiamento. Una piccola rivoluzione interiore su e giù per le montagne, con qualche riferimento religioso, a partire dal titolo, e poi nei pensieri di Benedikt, che ci fa sapere dalla pagina del Vangelo letta alla partenza, che quel giorno “Gesù entrava a Gerusalemme salutato con rami di palma verdi, col sole dentro”.
Ben presto la narrazione assume un respiro cosmico, diventando una parabola esistenziale in cui ognuno di noi può rispecchiarsi; in questo viaggio così concreto e così simbolico, fra descrizioni suggestive sperimentiamo una grande quiete in noi stessi e intorno a noi, nel silenzio delle montagne. Le sue riflessioni manifestano serenamente la precarietà della condizione umana: lungo il suo scalare gelido e solitario ci racconta una filosofia del mondo, una visione fatta di piccoli gesti di fedeltà a sé e alla natura, ricamati a formare il grande destino umano, comune e condiviso. Benedikt ama le montagne, la solitudine che vi si respira e che gli permette di adempiere al suo compito immerso nella riflessione su sé e sul mondo: “…nel mezzo di quel mondo raggelato che si dissolveva nelle tenebre, come se fosse anche lui parte della sera buia, c’è l’uomo Benedikt, mezzo servo e mezzo contadino, è lì con i suoi amici più fedeli, il montone Roccia e il cane Leò – e quel mondo è il suo. Lì vive ed è parte di tutto quello che può abbracciare con lo sguardo e con le mani, con i pensieri e con i presentimenti. Quel mondo è suo. È parte di questa vita”.
La meravigliosa pacatezza, il sentimento di gratitudine e la scoperta di sè, che emanano queste pagine, ci consegnano una saggezza profonda, capace di farci toccare con mano l’inconsistenza e la superficialità di stereotipi dettati dalla caduca moda della cieca dittatura del futile piacere immediato.
Ne scaturisce poesia a livello assoluto; una poesia che nasce da un uomo che riflette in mezzo alla natura selvaggia, un uomo che si mette in marcia con gli amici più fedeli nel periodo che precede il Natale, la festa della gioia, del calore, della riconciliazione tra uomini.
“…quel viaggio era come una poesia, con rime e parole magnifiche che restavano nel sangue. E come una poesia, col tempo s’imparava a memoria e poi si sentiva il bisogno di tornare, per accertarsi che nulla fosse cambiato. E così era: tutto era ancora estraneo e inaccessibile, eppure familiare e inevitabile. Benedikt si sentì invadere da una pace assoluta. Una fiducia sgorgata dal profondo si diffondeva in lui, totale e infallibile: lì camminava.”.
Nella sua semplicità evocativa, Il pastore d’Islanda è il racconto di un’avventura che diventa parabola universale, un gioiello poetico che si interroga sui valori sostanziali dell’uomo, un inno alla concordia tra tutti gli esseri viventi.
In un’atmosfera quasi magica si percepisce una umanità solida, ancorata alle tradizioni ed ai principi del bene, alla ciclicità della vita e della morte, non solo nella loro manifestazione materiale ma soprattutto in quella spirituale e che riguarda tutti nell’affrontare cambiamenti, nel chiudere capitoli e nell’aprirne altri, nell’andare sempre e comunque avanti per ritrovare sé stessi. Per fare ciò è necessario rallentare fino a fermarsi, risparmiare le forze ed usarle per nobilitare la propria esistenza. Tra la neve Il pastore d’Islanda va a morire momentaneamente: scompare in un percorso di rigenerazione e di pulizia interiore a contatto con gli elementi per ritornare tra gli uomini con un obiettivo raggiunto e con qualcosa in più dentro di sé.
Lungo questo meraviglioso viaggio il pastore si pone nella condizione di accoglimento nei confronti della vita, ben sapendo che solo dal rapporto di profondo rispetto per la natura l’esistenza umana acquista significato.